RICERCA RIDER: IL 78,4% CONTRARIO AL LAVORO SUBORDINATO

RIDER: IL 78,4% CONTRARIO ALLA DIRETTIVA UE

i risultati della ricerca diretta dal sociologo nicola ferrigni

(Roma, 2 febbraio 2022). In un periodo in cui le Istituzioni europee e nazionali si interrogano sul futuro dei lavoratori della gig economy, una risposta inequivocabile viene dai rider che, rivendicando la propria indipendenza e autonomia gestionale, bocciano senza esitazione la recente proposta di direttiva europea di inquadrarli come lavoratori subordinati.

È quanto emerge dall’anticipazione dei risultati della ricerca universitaria diretta dal prof. Nicola Ferrigni della Link Campus University, che vede intervistati centinaia di rider di tutta Italia operanti per le principali aziende di food delivery (Deliveroo, Glovo, Just Eat) e che, nell’78,4% dei casi, si dichiarano contrari alla proposta dell’Unione Europea di estendere anche ai gig workers il modello del lavoro subordinato.

«L’elevata percentuale di rider contrari – dichiara il sociologo Ferrigni, professore associato di Sociologia generale – a prima vista desta sorpresa, ma in realtà si spiega se guardiamo all’essenza di quest’attività lavorativa, che si costruisce attorno al valore identitario e non negoziabile della libertà. Questo significa una gestione autonoma e flessibile del rapporto tempo/guadagno, del tutto in contrasto con la rigidità (reale e/o percepita) del lavoro subordinato. I rider non discutono infatti la necessità di garantire alla propria categoria un sistema di tutele (di cui anzi lamentano la mancanza), bensì mettono in discussione gli strumenti e le modalità attraverso i quali tali tutele dovrebbero essere attuate».

Le ragioni del “no”. Le motivazioni per cui i rider dicono “no” alla proposta di direttiva europea sono molteplici. Il 35,6% ha infatti paura di perdere la propria autonomia, mentre il 31,7% teme che il contratto di lavoro subordinato non conceda al rider la possibilità di gestire autonomamente il rapporto tra lavoro e guadagno. Vi è anche un 15,9% a detta del quale si tratta di una soluzione che andrebbe a snaturare il lavoro del rider. A sostegno di tali preoccupazioni, chiamati a descrivere in una parola il proprio lavoro, i rider rispondono “libertà” nel 44,2% e “indipendenza” nel 27,1%.

L’algoritmo come forma di meritocrazia digitale. Nella proposta della Commissione Europea è poi centrale il tema dell’algoritmo, che la direttiva si propone di “arginare”, ri-umanizzandolo a partire dalla possibilità di correggere l’automatismo informatico. Su questo aspetto è interessante notare come, da una parte, vi sia un 36,8% di intervistati che considera l’algoritmo “indispensabile per garantire un servizio efficiente”, e un 21,7% che addirittura lo percepisce come un incentivo che “motiva a lavorare bene”. Tuttavia, vi è anche un 23,2% (in modo particolare tra gli over 30) che vede nell’algoritmo un meccanismo oscuro di cui ignora il funzionamento.

«A mio avviso, questo è un punto nodale, che definisce la cultura del lavoro che caratterizza le giovani generazioni e le professioni della gig economy. I giovani – continua il sociologo Ferrigni vedono infatti nell’algoritmo il “naturale regolatore” della propria attività, e non ne hanno paura. Al contrario, essi vivono la logica dell’algoritmo in una prospettiva di meritocrazia digitale, come upgrade di un modello italiano del lavoro dove il merito mediamente non viene sempre valorizzato».

L’identikit del rider. Ma chi sono i rider? L’anticipazione dei risultati della ricerca mostra che sono perlopiù giovani (il 51,7% ha meno di 35 anni), e che nel 38,6% dei casi hanno scelto questa attività perché “piace”; per il 16,9% si tratta invece di un secondo lavoro, che consente di arrotondare le entrate. Di contro, il 22,4% svolge questa attività in assenza di altre opportunità di lavoro e il 18,6% per necessità (percentuali che crescono soprattutto tra gli over 45).

Una diffusione pandemica. La ricerca conferma altresì il ruolo fondamentale della pandemia sulla crescita di questa occupazione: il 68,3% dichiara infatti di aver iniziato l’attività da meno di due anni, in molti casi (e soprattutto tra i “meno giovani”) per “tamponare” la perdita di occupazione e/o la riduzione degli introiti derivante dal Covid.

Soddisfatti, ma… Chiamati a esprimere il proprio livello di soddisfazione nei confronti dell’attività che svolgono, i rider promuovono a pieni voti la possibilità di guadagno (il 65,2% si dichiara abbastanza soddisfatto, il 4,8% molto soddisfatto) e la flessibilità organizzativa (26,4% “abbastanza” e 58,7% “molto”). Un lavoro, inoltre, di cui i rider vivono con consapevolezza e orgoglio l’utilità sociale, con il 59,5% che si dichiara “abbastanza” soddisfatto e il 24,9% “molto”.

La nota dolente riguarda invece il sistema di tutele legali e sindacali, che la stragrande maggioranza dei rider intervistati considera non adeguato: complessivamente, infatti, oltre il 60% esprime un giudizio negativo (il 22,6% per nulla soddisfatto, il 42,1% poco soddisfatto).

«La ricerca di cui presentiamo in anticipazione alcuni risultati – conclude Nicola Ferrigni conferma la necessità di uscire dalla logica subordinato vs. autonomo, che guarda all’assunzione a tempo indeterminato come a un punto di arrivo per il lavoratore. “Ingabbiare” la nuova cultura del lavoro in schemi rigidi e obsoleti non solo produce un “muro contro muro”, ma crea – anche e soprattutto – una frattura tra Istituzioni e realtà produttive da cui la nostra società non potrà che uscire danneggiata».

Guadagni e mance. La ricerca ha inoltre indagato la dimensione economica dell’attività di rider, sia dal punto di vista del guadagno medio mensile che con riferimento agli introiti derivanti dalle mance. Un aspetto, quest’ultimo, che desta molto interesse e che la ricerca ha voluto approfondire.

suicidi motivazioni economiche: otto anni (2012-2019)

ANALISI COMPLESSIVA: OTTO ANNI (2012-2019)

1.086 i casi dal 2012, allerta massima per gli effetti del coronavirus

Dal 2012 sono in totale 1.086 in Italia i casi di suicidio per motivazioni economiche.A rilevarlo l’Osservatorio Suicidi per motivazioni economiche, diretto da Nicola Ferrigni, che pubblica oggi i dati di 8 anni di attività e indagine sociologica sul fenomeno.

Dai dati diffusi dall’Osservatorio, e aggiornati al 31 dicembre, emerge come il 2019 sia sto un anno che ha visto una decisa battuta d’arresto del fenomeno rispetto all’anno precedente: 98 i casi registrati, infatti, a fronte dei 110 del 2018.

«Si tratta della prima vera e propria inversione di tendenzadichiara Nicola Ferrigni, professore associato di Sociologia generale alla Link Campus University – da quando l’Osservatorio ha avviato il proprio monitoraggio nel 2012 in assenza di ulteriori fonti documentali sul fenomeno, dopo la cessazione della rilevazione da parte dell’Istat. Nel 2019, per la prima volta dopo 8 anni, i casi di suicidio legati a motivazioni economiche sfondano, in un percorso all’indietro, la simbolica soglia “100”, regolarmente superata nel corso degli anni fino al picco dei 201 suicidi del 2014».

A fronte di un calo così importante, che ha interessato in modo particolare la categoria dei disoccupati, si rileva però un aumento vertiginoso del numero di suicidi tra gli imprenditori, che nel 2019 rappresentano circa il 60% del totale dei casi registrati nell’intero anno.

«Una crescita significativa e preoccupante, quella degli imprenditori suicidi – prosegue Nicola Ferrigni –, che sembra riportarci indietro nel tempo. In questi anni il nostro Osservatorio ha infatti messo in luce una trasformazione del fenomeno verso una progressiva omogeneizzazione, tanto a livello territoriale quanto tra le diverse categorie sociali; al Nord come al Sud, dunque, e imprenditori così come disoccupati. Gli ultimi dati ci restituiscono invece un quadro totalmente diverso e che, in qualche modo, ci riporta al lontano 2012 quando la crisi aveva stretto nella sua morsa molte aziende, soprattutto piccole e medie, facendo registrare un numero elevato di suicidi, principalmente tra gli imprenditori».

Cresce dunque la percentuale degli imprenditori suicidi mentre, di contro, si abbassa quella relativa a disoccupati e dipendenti: nel 2019 si attestano infatti al 31,6% i senza lavoro che si sono tolti la vita, con un decremento percentuale del 5% circa rispetto all’anno precedente e addirittura pari al 17% rispetto al 2014. Allo stesso modo, scende significativamente il numero dei suicidi tra i lavoratori dipendenti: 6,2% nel 2019, con una contrazione del 7,4% rispetto al 2018 e dell’8,6% rispetto al 2015.

«Il significativo decremento registrato tra quelle categorie che soffrono forse più di altre le conseguenze dell’instabilità lavorativa ed economica, come disoccupati e lavoratori precari e sottopagati, – prosegue Ferrigni, il direttore dell’Osservatorio – ci consente di fare delle prime considerazioni sull’efficacia di alcune politiche pubbliche di sostegno al reddito, in primis il Reddito di Cittadinanza, attuate dal Governo nei primi mesi del 2019, e che possono aver contribuito sensibilmente al contenimento del fenomeno».

Certo, la strada è ancora in salita, soprattutto alla luce delle nuove sfide economiche e sociali poste dall’emergenza sanitaria che vive in queste settimane il nostro Paese e che – conclude Ferrigni«rimettono al centro dell’attenzione l’esigenza di un programma di politiche economiche e di welfare molto più ampio e strutturato e che contempli le diverse categorie sociali: disoccupati, precari, famiglie, ma anche e soprattutto imprenditori, i quali saranno i principali protagonisti nel processo di ricostruzione e rilancio dell’Italia una volta fuori dall’emergenza Coronavirus».

L’analisi complessiva dei dati relativi al periodo 2012-2019 conferma dunque gli imprenditori come la categoria più colpita con il 43,1% del totale dei casi; a seguire, i disoccupati con il 39,3% e i dipendenti che, nell’arco di 8 anni, raccolgono l’11,3% degli episodi. Più circoscritta la percentuale di pensionati – pari al 3,2% – che in questi anni hanno visto nel gesto estremo l’unica via di uscita all’impossibilità di affrontare le spese quotidiane.

Per ciò che riguarda la distribuzione geografica, l’ultimo aggiornamento dell’Osservatorio riconduce il fenomeno per lo più alle regioni del nord Italia, che complessivamente raccolgono il 43,4% dei suicidi in 8 anni: nel dettaglio, il 23,9% nel Nord-est, con in testa la regione Veneto con il 15,4% del totale dei casi (e la provincia di Padova tra le più colpite), e il 19,5% nel Nord-ovest, che fa invece registrare un numero elevato soprattutto nella regione Lombardia (8,6%). Si attestano invece al 24,6% i suicidi nelle regioni del Sud con la Campania la regione più colpita (13,8%) e al 21,4% le regioni del centro Italia, con in testa il Lazio (7,1%). In coda le Isole con il 10,4% dei suicidi, soprattutto in Sicilia (7,8%).

Dall’analisi complessiva, infine, emerge come dal 2012 al 2019 la fascia d’età più esposta risulta quella dei 45-54enni, con un’incidenza pari al 34%, nonostante continui a preoccupare la progressiva crescita del numero di suicidi tra i più giovani: complessivamente infatti rappresentano il 20% del totale i suicidi tra i 35-44enni e il 10% circa quelli tra gli under 34 (di questi il 7,3% tra i 25-34enni e l’1,7% tra i minori di 25 anni).

COMUNICATO STAMPA
RASSEGNA STAMPA

#MOVIDA AL VIA IL NUOVO PROTOCOLLO

#MOVIDA #VIOLENZA AL VIA IL PROTOCOLLO CON LA QUESTURA DI ROMA

#movida #violenza ferrigni avvia la nuova ricerca nei locali dell’eur

Lunedì 18 novembre il sociologo Nicola Ferrigni ha partecipato, presso la Questura di Roma, alla firma del Protocollo d’Intesa, rinnovato per il quarto anno, tra il Questore Carmine Esposito e i responsabili dei principali locali della movida romana dell’EUR (Spazio Novecento, Room26, Exe, San Salvador).

Il prof. Ferrigni, già fra gli anni 2017 e 2018, aveva diretto la ricerca #MoVita. La percezione della sicurezza nella movida romana, promossa sempre dalla Questura di Roma e realizzata da Link LAB, il Laboratorio di Ricerca Sociale della Link Campus University. La ricerca aveva studiato il fenomeno della movida romana, focalizzandosi su due aspetti in particolare: da una parte, le abitudini e i comportamenti di quello che nel dibattito pubblico è definito come il “popolo delle discoteche”, dall’altra parte, il livello di sicurezza percepita da chi abitualmente frequenta i locali.

A margine della sottoscrizione del Protocollo, il sociologo Ferrigni, commentando questo progetto di forte senso civico, ha spiegato che «come per la precedente ricerca sulla movida anche in questa occasione ci auguriamo che gli esiti del lavoro possano costituire un punto di partenza per la formulazione di proposte di azione e intervento, rivolte alle Forze dell’Ordine e alla società civile, finalizzate a una sensibilizzazione e a una più efficace gestione del fenomeno».

Il Protocollo d’Intesa risponde a un’esigenza sociale, che negli ultimi anni si è fatta sempre più forte. Si sta verificando, infatti, una imponente escalation della #movida selvaggia che coinvolge ogni weekend grandi città come la Capitale o centri minori della provincia italiana. Il prof. Ferrigni, intervistato proprio lo scorso 18 novembre per il «Il Giornale di Sicilia», era intervenuto su questo fenomeno che ha visto l’ennesimo episodio nella provincia di Ragusa, in particolare su quei temi spinosi che coinvolgono oggi l’universo giovanile quali la droga, l’alcool, la mancanza di punti di riferimento e l’apatia che, troppo spesso, degenerano in #violenza.

Ferrigni ha spiegato come «le nuove generazioni non abbiano più paura delle conseguenze delle proprie azioni. Si è allentato il timore nei confronti delle Istituzioni, specialmente verso la famiglia, intesa nella sua funzione sociale, come nucleo di riferimento e orientamento. Inoltre, è aumentato l’uso di alcol e stupefacenti, che alterano inevitabilmente la percezione e la coscienza del comportamento». Al giorno d’oggi, ha continuato il sociologo «non c’è più una motivazione scatenante: mentre un tempo la rissa in strada era accesa da un’offesa, da una provocazione o dalla gelosia, adesso è fine a se stessa, è diventata una forma di passatempo che completa la serata. La cartina di tornasole di questa trasformazione della violenza – ha concluso il prof. Ferrigni è il #knockoutgame la moda di prendere a pugni in testa uno sconosciuto per strada e poi scappare per puro “divertimento”: un fenomeno che sta prendendo piede anche in Italia».